di Giulia Mancinelli
Dopo un intenso anno passato a stretto contatto con un gruppo di collaboratori provenienti da tutto il mondo, ho avuto il modo, oltre che il privilegio, di poter analizzare l’arte da punti di vista differenti da quelli per me convenzionali.
Sono nata e cresciuta a Firenze, città rinascimentale, nella quale ho conseguito la laurea in Storia e Tutela dei Beni Artistici. Il punto di vista accademico era dunque l’unico che conoscevo fino a poco tempo fa. La linea temporale convenzionalmente seguita dalla didattica scolastica e universitaria italiana, parte dall’arte classica e archeologica per proseguire nelle tre successive grandi epoche, individuate in arte medievale, moderna e contemporanea. I confini che delineano queste tre epoche sono spesso poco definiti e determinati dal docente, che può seguire una interpretazione personale e molto spesso soggettiva, legata al proprio percorso di ricerca e studio.
La mia inclinazione e l’interesse personale mi hanno legata particolarmente alla scena artistica contemporanea, ed ho quindi deciso di intraprendere un percorso di studi post-universitario che si distaccasse dal mondo accademico, con il desiderio di ampliare la mia visione e con la speranza di una futura occupazione nella gestione e organizzazione dei beni culturali da un punto di vista più pratico. Ho quindi scelto un corso in arts management, master in inglese presso lo IED (Istituto Europeo di Design). Nella traduzione e spiegazione di questa denominazione mi sono sempre trovata in difficoltà: “gestione delle arti” (traduzione letterale di “arts management”) indica un’ampia lista di settori e professionalità, che in Italia sono ancora posizioni difficili da definire. Ho avuto la possibilità di approfondire tutti gli aspetti che concernono la cura, la produzione, la comunicazione e la post produzione di un processo artistico, sia che si tratti di una mostra che di un evento. Inoltre ho avuto modo di studiare alcune tendenze artistiche nate intorno agli anni ‘60-’70 come il minimalismo, l’arte povera, l’arte concettuale e l’arte performativa che in effetti non avevo avuto possibilità di conoscere approfonditamente durante la triennale universitaria. Nello specifico, l’arte performativa ha suscitato in me un interesse particolare, nato da un iniziale rifiuto. Proprio così: un rifiuto. Tutto è nato durante la partecipazione a The cleaner di Marina Abramovic.
La Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze molto spesso mette i suoi spazi a disposizione all’arte contemporanea e a cavallo tra il 2018 e il 2019, la famosa artista serba Marina Abramovic ha riproposto alcune performance degli anni ‘60 e ‘70 con il supporto di alcuni giovani artisti che lavorano con lei, oltre che di video e foto del passato.
Curiosa ed entusiasta di vedere qualcosa di nuovo, mi sono trovata senza gli strumenti per capire una tale espressione artistica, un linguaggio assolutamente estraneo a quanto imparato sui libri fino a quel momento. Il mio occhio infatti si era allenato solo a leggere immagini prodotte in epoche antiche (inteso fino alla prima metà del ‘900). ln quel caso il verbo “vedere” era infatti sbagliato; “partecipare” alla mostra era sicuramente più appropriato. Non avevo idea che di lì a pochi mesi avrei avuto molta più dimestichezza nel comprendere le motivazioni che hanno spinto molti artisti a compiere cosiddette “azioni” e che tutt’oggi continuano ad esprimersi così. Al tempo uscii da Palazzo Strozzi con un mix di stati d’animo contrastanti che mi hanno portato all’inevitabile riflessione: “Perchè? Quali sono le motivazioni? Come mai mi ritrovo inerme e sconcertata davanti ad azioni così plateali?”
Ho sempre creduto che nulla più potesse crearmi uno shock; d’altro canto noi “millennials” siamo cresciuti con il privilegio / condanna di poter accedere con un click (del telecomando prima, mouse poi ed infine un touch) a qualsiasi immagine o informazione. Eppure quel percorso, stanza dopo stanza, mi aveva in qualche modo destabilizzata, arrivando a domandarmi addirittura cosa fosse veramente l’arte. Insomma un crollo repentino di certezze calcificate dal retaggio culturale, consolidato da un sistema didattico che, per quanto di eccellenza possa essere stato, non è proiettata al futuro.
Pochi mesi dopo, durante una lezione del master, una professoressa ci propose la visione di The artist is present, docufilm sulla vita di Marina Abramovic. Eccolo lì! Un’altra volta, lo shock, quasi rasente la rabbia, la paura di star perdendo tempo con un’artista che rifiutavo di chiamare tale. Intorno a me i miei colleghi del master: una svedese, un’islandese, due ragazzi portoghesi, due ragazze cinesi, una russa, una tedesca, tre turche (no, non è una barzelletta!) è stata la mia fortuna. Le loro reazioni davanti al docufilm sono state completamente differenti: empatia, euforia, ammirazione e in alcuni casi commozione. Mi sono sentita in dovere di indagare. Non si trattava più di semplice “gusto personale” ma di una palese lacuna nel decifrare il messaggio della Abramovic. Mi sono impegnata: ho letto quanto più possibile ma soprattutto ho interrogato i miei colleghi su quale fosse la loro visione dell’arte.
La premessa che devo obbligatoriamente fare è quella di segnalare la varietà non solo di provenienza di questo gruppo ma anche di età e percorso pregresso sia di studi che professionale. Soprattutto le persone provenienti dal nord-europa erano le più coinvolte dall’arte performativa. O meglio, semplicemente la ritenevano arte. Non solo: chi aveva come me un percorso analogo nella storia dell’arte, mi ha comunicato il suo completo stupore nell’apprendere la nomenclatura che io usavo con disinvoltura durante le nostre conversazioni sull’arte. Il mondo accademico dal quale provengo infatti indica come “moderna” la storia di un’arte nata nel 1400 e che finisce nel 1700. Questa nomenclatura non è utilizzata nei piani di studio di altri paesi europei come la Svezia dove definiscono questo periodo “rinascimento – barocco”. In questi paesi l’arte moderna coincide con la dicitura contemporanea, ma non solo: la prima può coincidere con la nascita dei primi movimenti di rottura con il realismo come l’impressionismo e il cubismo; la seconda con movimenti artistici nati nella seconda metà del XX secolo. E’ curioso come in Italia il moderno sia associato ad un periodo così lontano.
Oltre ad aver intervistato e dialogato con i colleghi del master ho anche approfondito la materia facendo ricerca online, scontrandomi con la stessa soggettività già registrata nella classificazione accademica dell’arte. Body art, arte partecipativa, immersiva, interattiva, collaborativa, immediata… un vero caos! Il percorso è stato tortuoso ma più mi documentavo attraverso la visione dei cosiddetti leftovers foto, video o materiale artistico -e non- prodotto delle perfomance, sia risalenti a decenni fa che attualissimi come The Visitors di Ragnar Kjartansson o VB52 di Vanessa Beecroft, più il caos trovava il suo ordine naturale.
Poco dopo, nel giugno 2019, ho iniziato il mio lavoro alla Manifattura Tabacchi di Firenze. Tante idee, nuove opportunità e valori che non avevo mai respirato, almeno non nella mia città:l’internazionalità e l’incentivo dell’arte contemporanea, artigianato compreso. All’interno delle molte iniziative di riqualificazione dell’area vi è “Toast Project Space”: uno spazio di 4mq, ex casotto della portineria della fabbrica ormai dismessa nel lontano 2001. Una delle primissime artiste selezionate dal curatore dello spazio, Stefano Giuri, è stata la giovane artista residente a Londra, Guendalina Cerruti che ha presentato la sua opera site specific Swan Lake and Swan Dance accompagnata da una performance dell’artista svedese Jaana Kristiina Alakoski. Presente e stavolta già più preparata a recepire cosa stava per accadere: un dialogo tra il lago dei cigni, statico nello spazio Toast, e la performer che racchiude in un unico essere due cigni che si amano, si respingono, fino alla morte.
Io ero preparata, sì, ma praticamente tutto il resto dei presenti non lo era.
Le performance sono, per la maggioranza delle volte, non annunciate, essendo degli happening, succedono e basta. L’interazione col pubblico diventa fondamentale e questo ha un ruolo importante nell’azione, tanto importante che la sua reazione potrebbe condizionare il risultato della performance stessa.
Il 16 gennaio scorso come lavoro finale del master è stato realizzato a Roma Dilemma Art Event. Dopo aver aperto una call for artists, abbiamo selezionato sette artisti tra individuali e collettivi. Il principale collettivo di artisti è stato Dynamis Teatro che ha pensato la performance “CLUB”. In quel caso il performer è tra la folla, e la consapevolezza della sua presenza cresce via via con la performance, mettendo così lo spettatore allo stesso pari dell’artista.
In Italia, nei centri per l’arte contemporanea come il Pecci di Prato o musei come il MAMbo di Bologna o il Madre di Napoli, si sta sempre più dando attenzione a questa forma artistica invitando gli artisti ad operare durante opening o vernissage. L’attenzione e la partecipazione del pubblico italiano è però ancora troppo bassa forse perchè partecipare a tali azioni richiede uno sforzo emotivo e una presenza fisica reale. Siamo invece abituati ad una partecipazione passiva che è quella richiesta per la visita di una classica mostra di arti visive, con quadri ed installazioni che inoltre hanno (molte volte) una comunicazione non adeguata che può risultare anche noiosa ai non addetti ai lavori.
La missione delle performance che è un avvenimento, la maggioranza delle volte inaspettata, è sempre la stessa: muovere qualcosa nelle persone, catturare la loro attenzione e spronare alla riflessione su un dato concetto sebbene questo neanche non sia dichiarato. Il curatore e l’artista lavorano spesso insieme proprio a tale scopo. E’ esattamente quello che è successo a me, nel bene o nel male, davanti a Marina Abramovic.
Il 22 febbraio verrà inaugurata la nuova proposta di Palazzo
Strozzi: Tomàs Saraceno, artista multidisciplinare che propone un
percorso immersivo ed esperienze partecipative che invitano al ricongiungimento dell’uomo con l’armonia dell’universo.
Inutile dire che tutti dovremmo andare…
Giulia Mancinelli è dottoressa in Storia e Tutela dei Beni Artistici e laureata master in Arts Management presso IED – Istituto Europeo di Design. Giulia è una fiorentina doc con la passione per la musica elettronica, la scrittura e il buon vino. Ha collaborato con vari network come Manifattura Tabacchi Firenze, culturefuture.net, Club21 e Goaclub.